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Ritorno alle radici, in quella Trieste con lo sguardo rivolto verso Est: "Alma" di Federica Manzon

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Manzon-Alma

Alma
di Federica Manzon
Feltrinelli, 16 gennaio 2024

pp. 266
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)

L'isola, un ricordo, forse un po' sbiadito, dell'infanzia, ricordi di vento, aria, acqua, ricordi azzurri, quasi sempre solo estivi, lunghi pomeriggi passati da sola a giocare, a tuffarsi dagli scogli piatti, a volte insieme a bambini che parlavano lingue diverse dalla sua. Intanto, sull'isola, uomini in giacca e cravatta passeggiavano. E donne vestite come dive del cinema (e forse lo erano davvero) si lasciavano ammirare. Sull'isola c'erano camerieri pronti a soddisfare ogni esigenza degli eleganti ospiti, soldati, che scrutavano qua e là, a tutela dei personaggi importanti. E, soprattutto, sull'isola c'era il Maresciallo, sempre vestito di bianco.
A quel tempo suo padre la portava due o tre volte l'anno sull'isola. C'era un'aria da festa del cinema e coppe di champagne, l'aria sbarazzina dei Paesi non allineati (p. 14)
Il padre, quel giovane uomo alto, biondo, bello, sempre fuggente, sempre di passaggio, impegnato, agli occhi di Alma, a vivere un'esistenza segreta, ammantata da un'aura di mistero e di fantasia, le raccomandava di non raccontare mai nulla a nessuno, nemmeno alla mamma che rimaneva a Trieste, delle sue estati sull'isola. Che così rimaneva un luogo avvolto nella favola, mitizzato dai racconti del papà che sull'isola ci tornava sempre e quando rientrava a casa, per pochi giorni, le parlava del mondo "di là" come di un  Eden, un posto dove tutto era perfetto.

Da tempo ormai Alma ha deciso di mettere più spazio possibile fra lei e Trieste, tra il suo presente e i ricordi dell’infanzia, che hanno anche il volto dei nonni, solidi e asburgici: quanto ci tenevano a rimpinzare la piccola Alma di Wiener Schnitzel, di Kaiserschmarren, di Bretzel, di Sachertorte. Quasi a compensare i buchi lasciati dalla quella loro figlia ribelle, la madre di Alma, incapace di svolgere un qualsiasi lavoro domestico, distratta dal suo lavoro alla Città dei Matti, dove Franco Basaglia stava mettendo in pratica le sue teorie, allora rivoluzionarie, sulla psichiatria. Alma ha messo spazio e tempo tra sé e da quel padre che spariva per mesi, senza dare notizie di sé. Mentre la madre, vestita di raso verde, aspettava per cena quell’uomo slavo che aveva sposato contro il parere di tutti, e che tornava trafelato da qualche luogo dell'Est canticchiando malinconiche canzoni balcaniche.
Quell'Est che per Trieste è confine, continuità, separazione, orizzonte. Tutto insieme. Un orizzonte che non fa più parte della vita di Alma che vive a Roma, sentendosi sempre fuori posto, fa la giornalista e quando qualcuno le chiede del suo passato tergiversa, tace. Salvo sussultare quando sul bus le capita di sentire, nelle conversazioni delle donne dell'Est, quasi sempre badanti, echi della lingua che le ricorda la sua infanzia.
Qualche volta ha provato a raccontare qualcosa dell’Est, un profumo, un’abitudine, un ricordo ma dell’Est alla gente importa poco (tranne a qualche “disturbato”, come scrive l'autrice, nella cui categoria io mi infilo direttamente, con la mia passione per i Balcani). No, l'Occidente non è mai stato veramente interessato nemmeno quando la guerra, non molti anni fa, era al di là dell’Adriatico, a un braccio di mare da Rimini, da Riccione. A parte i volontari che rischiavano (e, a volte, perdevano) la pelle, come il mio concittadino Fabio Moreni, caduto a Gorni Vakuf mentre portava un camion di aiuti. O le famiglie che accoglievano bambini con gli occhi grandi dalla paura, quelli raccontati nel bel libro di Rosella Postorino, Mi limitavo ad amare te. Ma, in generale, si trattava di una guerra "di là", si ammazzavano tra loro, non ci riguardava. Da tutto questo Alma si è allontanata, ha messo chilometri e anni.

Ma improvvisamente il ponte con il passato, invisibile a tutti, è pronto a solidificarsi di nuovo. Quel padre alto, biondo e bello è morto e l'ha resa titolare di un’eredità imprevista che la costringe a tornare alla sua Trieste, città meravigliosa, ultima dell’Italia, quasi irraggiungibile, con lo sguardo sempre di lato, rivolto a Est, verso i Balcani, o a Nord, verso l’Austria. Quasi mai all’Occidente. Dai quartieri di Servola dove gli s’ciavi (gli slavi) vivevano in casermoni di stile sovietico alle vie e ai caffè del centro dove la borghesia porta ancora in giro quella certa aria nobile e aristocratica quasi come se Trieste fosse ancora l’unico sbocco al mare dell’impero asburgico. È la doppia anima di Trieste, balcanica e austriaca, rappresentata dalla sua stessa famiglia che divide in due Alma. E lungo tutto il racconto c'è quell'attenzione alla storia che viene narrata diversamente a seconda delle due anime, tra i ricordi del nonno che desidera che il passato non sia per Alma un tempo a lei precluso e il presente che invece vira a Est e che Alma vive in contemporanea insieme al padre.
Ma prima di mettere piede in città e di incontrare Vili, quel ragazzo, ormai diventato uomo, che nel suo passato ha significato tantissimo, Alma vuole tornare nella sua isola favolosa, quella che la vide bambina. Ed è qui che il lettore la incontra per la prima volta.
Potrebbe fermarsi alla baia e scendere fino allo scoglio che era suo, ormai del tutto nascosto dai pini marittimi che sfiorano l'acqua, evocare da lì i fantasmi di un'epoca, ma questo luogo non le appartiene. È solo il frammento di un'estate lunga come la sua infanzia, o qualcosa di meno. Una sospensione della vita che accadeva altrove, un tempo reso irreale dal segreto. Non dire a nessuno dell'isola, va bene zlato? Sì. Per molti anni ha creduto di essersi immaginata tutto, il Maresciallo e il fazzoletto rosso dei pionieri. Eppure conosceva i dettagli. Quei giorni sono esistiti, la geografia conferma il tempo. Tutte le storie finiscono in un'isola, diceva suo padre. Ma Alma sospetta che per lei l'isola sia solo l'inizio. (p. 33)
Un luogo che rimane fermo, sospeso nella magia di uno sguardo infantile, un tempo che Alma non sa se ha vissuto davvero o inventato nei suoi giochi da bambina. L’isola non è nominata all'inizio ma è facile individuarla in Brioni, la residenza estiva del Maresciallo Tito che qui invitava re e regine, ambasciatori, delegazioni. Qui c’era lo zoo dove venivano ospitati gli animali, dono di altri Paesi, elefanti, zebre, pavoni. Qui c'era la bella vita, qui stava il padre alto e biondo quando a casa non c'era.

E da qui deve ripartire il viaggio nel passato di Alma, che ci metterà quasi tutto il libro a incontrare Vili, il bambino con la maglietta della Stella Rossa che il padre, di ritorno dall'Est, aveva portato con sé perché figlio di intellettuali serbi caduti in disgrazia e che da allora sarebbe diventato fratello, amante, amico, estraneo, amato e odiato. Scontroso negli anni dell'infanzia, bambino solo, in una terra sconosciuta e ostile. Da piccoli i due ragazzini mal sopportano quella convivenza forzata e Alma osserva con invidia quelle conversazioni in serbocroato con il padre che la escludono.
Ma Alma e Vili si cercano, la guerra dei Balcani li troverà, lei giornalista, lui fotografo di guerra, non a Sarajevo, dove andavano tutti... bensì a Belgrado, dalla parte sbagliata della Storia. Quella parte che per Vili invece significa radici, identità, famiglia, patria. E per lunghe pagine il romanzo ci restituisce uno sguardo diverso sul quel conflitto, la visione serba. L’Occidente stava, soltanto a parole purtroppo  (vedi alla voce Srebrenica), con la Sarajevo martoriata dall'assedio quando era chiaro chi fossero gli assaliti e chi gli assalitori. Ma Alma nella sua vita ha a che fare con i serbi, lo è il padre, ghost writer di Tito (sì, era questo il lavoro che lo portava sull'isola). Lo è Vili, costretto per troppo tempo a soffocare la sua parte serba. Lo è, per metà, lei stessa e così le viene naturale, quando le chiedono di seguire la guerra per il giornale in cui scrive, recarsi a Belgrado. Anche perché sa di trovarvi Vili, sparito improvvisamente. "La geografia ha sempre la meglio sulla Storia" (p. 91). E tutto passa attraverso il concetto di identità che, spesso, nelle guerre, soprattutto quelle balcaniche, è la miccia infuocata sempre pronta a esplodere.

Federica Manzon mi stupisce sempre per la profondità, mai retorica, ammantata di leggiadria, con cui lascia alcune frasi sulla carta che rimangono nella mente e aprono squarci di riflessione e consapevolezza. E per la capacità di far camminare sulle gambe dei personaggi alcune convinzioni o rappresentazioni della Storia.
E così ci racconta "Una storia che ha a che fare con la famiglia, il passato, i morti e le radici, quel genere di cose che stanno sepolte sotto terra" (p. 28). L'intero racconto è un riavvolgersi del nastro che avviene sotto gli occhi del lettore che ogni tanto riaffiora, quasi come stupito, nel presente per poi rituffarsi a capofitto in quegli anni lontani.

Federica Manzon ci offre un romanzo stratificato, ricco di punti di fuga e di echi storici. Ci fa entrare, spalandoci la porta, in quel mondo balcanico forse ancora poco conosciuto e lo fa tramite il ritorno al passato di Alma che, già a partire, dal titolo riempie di sé le pagine, si fa protagonista lasciando però il giusto spazio agli altri attori del racconto. La scrittrice usa un espediente grammaticale per rappresentare questo fondersi della protagonista con la Storia: il cambio di tempi verbali a dare il senso del fluire ininterrotto del tempo e di persona all'interno della stessa pagina, dalla terza singolare alla prima plurale, quasi a conglobare anche il lettore in un noi collettivo che si rispecchia nelle vicende e nei luoghi di Alma.
Ed è anche un tentativo di entrare in punta di piedi, con molta delicatezza in quella complessità balcanica che ha sempre impedito all'Occidente di capire esattamente che cosa stava succedendo "di là". Perché Alma, per seguire Vili, è andata a infilarsi nella parte più difficile da comprendere, quella serba.

Un romanzo riuscito che conferma come Federica Manzon, scrittrice e direttrice editoriale della casa editrice Guanda, sia una delle voci narrative più fresche del nostro panorama letterario, con quel suo sguardo rivolto a Est che porta con sé tanti echi letterari e che desidera mettere un po' di ordine in un passato complesso e aggrovigliato nel quale Trieste (dove Manzon divide la sua vita con Milano) si è sempre trovata al centro.

Sabrina Miglio